Get Adobe Flash player

cammino del Tao

L’Arte & l’eterno andare del presente

L’articolo è scaricabile in formato PDF dal forum di Anticopyrightpedia cliccando qui

Il poeta mistico persiano Jalāl al-Dīn Rūmī del XIII sec., ebbe ad usare, in una sua poesia, l’espressione “l’immagine non è che un’ombra” evidentemente, riferendosi all’immagine della realtà materiale e nel paragonarla a un’ombra, il poeta ne evidenziava la sua vera natura effimera di inconsistenza, di apparenza, quando non addirittura di inesistenza.

La realtà come forma apparente, non doveva essere solo una convinzione di Jalāl al-Dīn Rūmī ma della maggior parte dei pensatori orientali, che, nel loro intenzionale desiderio di rifuggire la pura esteriorità, puntavano al raggiungimento di uno stato di estasi e di rapporto sublime con il cosmo (armonia cosmica) che doveva avvenire proprio attraverso il distacco dalla realtà per mezzo della pratica ascetica e, nel caso del nostro poeta, della danza Derviscia, essendo egli stesso fondatore della confraternita sufi dei dervisci rotanti; Jalāl al-Dīn Rūmī, per l’appunto cominciò a far parte dei Dervisci dopo che venne a contatto con uno dei loro maggiori maestri spirituali, Shams-i Tabrīz (sole di Tabrīz), innamorandosene perdutamente in una sorta di amore da lui considerato perfetto.

Chi mi conosce sa bene che, pur provenendo dal postmoderno, sono anche un profondo cultore (e stimatore) dei pensieri orientali tanto che la mia concezione di Arte assume un carattere ascetico alla stregua di una qualunque pratica di misticismo orientale, che, a mio avviso, è insita e si riassume nella genetica stessa del postmoderno, proprio come il fenomeno della luce bianca così ben descritto dalla fisica ottica è sorprendentemente affine a quello del fondo bianco delle rappresentazioni Taoiste, Buddiste o Zen. Nel primo caso la luce bianca non è che la somma di tutti gli altri colori dello spettro elettromagnetico del visibile (vedi l’effetto arcobaleno della luce del sole che si rifrange sulle sottili goccioline d’acqua ancora presenti nell’aria subito dopo una pioggia), mentre nel secondo caso, i mistici orientali concepivano e usavano di regola il fondo bianco nelle loro rappresentazioni iconografiche perché ritenevano (e ritengono) che il bianco rappresenti quella condizione di vuoto creativo (Wu), in cui sono contenuti, in forma potenziale, tutti i possibili segni (intesi anche come colori): il vuoto che dunque non è il nulla (il nulla non esiste) come idea di pienezza da cui ne discende che il cuore (cioè l’Arte) è puro come il vuoto.

Altra cosa, se non dire l’opposto, è invece il contrasto del bianco e del nero nell’arte occidentale dato dall’effetto del chiaroscuro, sia nel bicromatismo che nell’ampia gamma delle tonalità di colori, chiaroscuro usato come tecnica per l’evidenziazione e lo sviluppo dei contorni spaziali e le varie tonalità delle forme reali…

Il mio amico pittore Maurizio Governatori, nonostante sia risaputo che le sue idee non collimino esattamente con le mie circa la visione dell’arte occidentale contemporanea, tuttavia ebbe ad usare in un suo scritto una bella espressione che merita essere riportata testualmente:

Non ho mai pensato all’arte come a una successione temporale, una progressione espressiva, ma a una spirale che si distende senza perdere di vista i contorni più antichi, il centro; la vera arte è sempre contemporanea, continua a trasmettere tutta la sua ricchezza, e rinnovare la sua visione.

Una definizione, questa sua, dell’arte contemporanea, molto condivisibile e senza andare a vedere i numerosi retroscena e risvolti che si celano dietro di essa e che hanno molto a che fare con l’arte orientale in generale, mi soffermerò solo sull’immagine della spirale citata nel descrivere l’evolversi dell’arte come quel dipanarsi sempre intorno al suo fulcro della conoscenza pregressa e dell’antico.

La forma della spirale, contiene in sé una forte componente di mistero, se la riferiamo, ad esempio, alla concezione ciclica del tempo, una ciclicità molto particolare e che, in pratica, racchiude il senso della vita. Per la sua particolare circolarità, la spirale ci lascia immaginare un moto perpetuo che tuttavia è destinato alla diversità, e che, pertanto, non può mai essere “eterno ritorno” nietzschiano, bensì “eterno andare del presente” in un percorso di assoluta “irripetibilità”, che si autoalimenta (ciclo dell’esistenza vita/morte) incessantemente identificandosi e concretizzandosi, indefinitamente, nella distintività dei corpi naturali e cosmici (come galassie, DNA, crescita delle piante, l’implosione dell’acqua di Viktor Schauberger, ecc.). Ma non si tratta certo dello “spirito infinito” Hegeliano che rappresenta ancora il pensiero e la razionalità, bensì di qualcosa di veramente altro e altro da sè proprio in quanto impensabile e intangibile; quell’intima essenza che si nasconde nel fluire delle relazioni e che si rivela intuitivamente in frazioni nanometriche di tempo attraverso istanti di fuggevoli percezioni che, tuttavia, ci infondono di pienezza e di vita: questo è quello che io chiamo Arte e che, detto in termini spirituali lo paragoinerei col cammino del Tao o con la pratica meditativa dello Zen.

Anche Auroville, per dire, la famosa utopia reale nel sud dell’India, si sviluppa lungo una spirale per espresso volere dei suoi fondatori (la Madre e Aurobindo) e rappresenta l’unica esperienza di modello sociale alternativo (ecovillaggio) veramente riuscito, basato non più sul denaro ma sulla condivisione collettiva dei beni e sulla solidarietà degli abitanti, alla maniera, ma direi meglio della stessa Cuba.

Ritornando alla filosofia Zen e al Tao, la condizione di “vuoto” è essenziale per potere continuare a riempirci delle cose della vita: per inspirare aria nuova dobbiamo espirare tutta l’aria che avevamo immagazzinato e per potere mostrarsi la stessa luce del visibile deve attraversare uno spazio vuoto prima di essere assorbita e/o rifratta dalle superfici ritornando agli spazi vuoti. Il vuoto dunque non è il nulla della nostra visione aristotelica (vuoto = nulla). Il nulla per gli orientali non esiste ed il vuoto si riempie sempre di quel qualcosa che genera la “qualità” della vita che in parte ne è anche l’essenza.

Anche in fisica quantica, come conseguenza del principio di indeterminazione di Heisenberg, le particelle di materia, descritte come oscillazioni di campo, vengono generate da incessanti fluttuazioni energetiche invisibili (le cosiddette “particelle virtuali”) che avvengono nel vuoto quantistico e che non di vero e proprio vuoto si tratta, ma di un’altra entità fisica dinamica capace, come per incanto, di generare materia. Allo stesso modo è stato accertato con calcoli matematici che l’universo contiene per la quasi totalità “materia oscura”, una materia con tanto di massa e in grado di schermare e deviare la luce pur non essendo visibile; l’universo visibile rappresentato dalle galassie di stelle ed dai pianeti sono dunque solo la minima parte della materia che esiste nell’universo e che è in pratica quella che riusciamo a vedere con i nostri sensi e a percepire con gli strumenti scientifici. La maggior parte della nostra realtà è “invisibile” non solo ai nostri occhi ma anche agli strumenti scientifici che possono solo dimostrarne l’esistenza in modo indiretto (vedi tutti gli esperimenti nella ricerca di base della fisica in acceleratori di particelle) e i mistici orientali, intuitivamente, già possedevano queste conoscenze!

Maurizio Cattelan, per tanti (me compreso) icona negativa dell’arte contemporanea, immagino che conosca bene questi concetti filosofici del pensiero orientale, dai quali, probabilmente, prendeva spunto mentre dichiarava in una sua intervista:

È il vuoto che mi concentra e mi dà delle idee

Considerato il suo tipo di vissuto, il suo particolare carattere personale (non di personaggio) e il suo modo alquanto singolare di relazionarsi col mondo, al di là del sensazionalismo e dello sfruttamento del sistema economico che è pure alla base del suo impegno, ho motivo di pensare che il suo modo di vivere l’arte è, tuttavia, in forma profonda e meditativa. Anche se le sue opere valgono scandalosamente milioni di dollari e anche se lui si è prestato a questo insulso gioco di mercato dell’arte, tuttavia, chi lo conosce sa che vive con pochi soldi (egli stesso l’ha dichiarato), gira in bicicletta e veste con poco: in definitiva non ha modificato il suo basso tenore di vita e la notorietà sembra scivilargli addosso…come fosse solo il lato più viscido di sé.

Ritengo che Cattelan abbia le prerogative di artista per la sua sensibilità di uomo e per come ha vissuto e vive (almeno stando a quanto ha dichiarato nelle interviste), mentre come artista mediatico quale dice di essere, valga poco e nulla e le sue opere, di fatto sono solo futili provocazioni, apparentemente a sfondo politico ed in pratica solo un escamotage per dare sfogo al proprio individualismo e per produrre denaro, ma non certo senza lavorare (come avrebbe voluto) perché è talmente oberato dal lavoro da aver dichiarato di voler smettere.

In definitiva Cattelan è artista come uomo laddove magari non sa neanche di esserlo, ed è un semplice sfruttatore dei media, uno dei tanti, quando illude e si illude di produrre opere d’arte da trovate che sono del tutto infantili e, solo per questo motivo, da grande pubblico.

Per quanti invece ritengono che Cattelan sia solo un insensibile opportunista ed ignorante in fatto di arte, faccio notare invece che è dotato di una certa conoscenza e sensibilità per l’arte pittorica perché uno dei suoi primi post del suo blog (su sito gratuito) risalente al 29/12/2006 e quindi quando era già molto famoso, è dedicato, nientemeno che a Pietro Annigoni anche se di fatti l’articolo non è stato scritto di suo pugno, ma lo aveva copiato da una pagina del sito museum.com scritta agli inizi del 2001 in occasione della mostra dal 17.03.2001 – 24.06.2001 al Panorama Museum, Germany, Bad Frankenhausen e la pagina è questa. Solo il mese prima, nel novembre del 2006, aveva pubblicato sulla figura di Tiziano Terzani. Questo solo per dire che non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze (per dirla alla Jalāl al-Dīn Rūmī).

Molti dei cosiddetti artisti politicizzati, sostengono tuttavia che l’arte contemporanea sia solo un affare commerciale generatrice di un “mercato delle idee” e che non abbia più niente a che vedere col lavoro manuale convinti che quest’ultimo, inteso come capacità e bravura a loro volta derivanti dallo studio, sia una caratteristica della buona arte dedita alla bellezza… Considerano cioé questa forma di arte (l’arte contemporanea) alla stessa stregua di una “rendita” un reddito illegittimo, prodotto senza lavoro manuale e quindi pura speculazione economica.

Ma la vera arte contemporanea non è certo un mestiere e pertanto non può avere un mercato, anche perché non necessariamente produce beni per essere essenzialmente un agire oltre la forma e spesso oltre la dimensione spazio-temporale per una percezione sequenziale di istanti, sempre e comunque.

Ma volendo ragionare a loro modo, per scongiurare una speculazione commerciale su un falso lavoro come si pensa che sia l’arte contemporanea, a mio modesto avviso non è sufficiente garantirsi la provenienza dell’oggetto prodotto (in questo caso artistico) dal “lavoro manuale”, perché in un libero mercato il prezzo lo decide il mercato stesso nel rapporto domanda/offerta.

Per intenderci, non è Maurizio Cattelan a stabilire il prezzo milionario delle sue opere (anche se lui ora si troverebbe, data la notorietà, in condizioni di poterlo esigere) bensì è l’insieme degli acquirenti-investitori disposti a sborsare milioni di dollari per acquistare una sua opera magari interagendo tra loro in una vera e propria asta: il problema esiste cioé all’origine del sistema mercato che permette il generarsi ed il perpetrarsi di tale speculazione.

Tanto per fare un esempio, un qualunque pittore, nell’atto di vendere un proprio quadro (ma questo vale per tutti gli altri beni economici), propone un proprio prezzo (es. mille euro), ma se poi nessuno è disposto a comprarlo a quel prezzo di fatti il quadro non lo venderà, oppure se lo vorrà proprio vendere dovrà essere disposto a rittoccarne il prezzo a ribasso finchè non troverà un potenziale acquirente interessato al suo quadro e disposto a comprarlo.

Allo stesso modo, essere contro quella che è stata definita usura dell’arte contemporanea, significa certamente dissentire sulle attuali speculazioni delle opere d’arte di Cattelan e di quelli come lui, ma, al tempo stesso, ciò comporta l’accettazione passiva dell’idea che un’opera d’arte debba essere comunque assimilata ad altri beni commerciali e quindi vendibile anche se ad un prezzo adeguato.
E proprio quanto detto sembra essere nelle intenzioni e negli obiettivi del movimento “arte decrescita” di Maurizio Pallante.

Benissimo, dico io: ma in condizioni di mercato libero chi e come si fa a stabilire un prezzo giusto o equo se in regime di libero mercato è sempre il rapporto offerta/domanda a decidere i prezzi e le sorti delle vendite?! In tali condizioni ci saranno sempre opere molto richieste dei cosiddetti famosi o più richiesti sul mercato, il cui prezzo salirà alle stelle, a meno che non si ponga un limite massimo di prezzo, ma allora in quel caso non saremmo più in un mercato libero ma controllato o monopolistico.

Coloro che aderiscono al movimento “arte decrescita” di Pallante combattono le speculazioni del mercato dell’arte contemporanea, pur ammettendo lecito il mercato dell’arte in generale: associano la speculazione al binomio novità/obsolescenza quali elementi tipici del mercato industriale e del consumismo, dando però per scontato la leggitimità del mercato anche nell’arte, senza chiedersi se sia una cosa giusta e lecita e soprattutto senza riuscire a dire come si potrebbe realizzare, nei fatti, una decrescita felice dell’arte e in cosa consisterebbe in realtà.

Non potendo controllare il libero mercato, in linea teorica, il movimento “arte decrescita” potrebbe avanzare, come proposta fattiva, la realizzazione di un listino prezzi solo per le opere degli aderenti al progetto, con variazioni di prezzo delle opere oscillanti da un minimo ad un massimo prestabilito e non oltre.

Però una proposta del genere genererebbe subito il malcontento tra gli stessi aderenti alla decrescita per via delle seguenti problematiche:

a) in base a quali criteri si andrebbe a stabilire il valore commerciale di un’opera d’arte, trattandosi di contenuti?
b) quanti artisti, pur aderenti al movimento della “arte decrescita” sarebbero veramente disposti a rinunciare all’idea di far liberamente lievitare il prezzo di mercato delle proprie opere nel diventare celebri?

Sono stati proprio questi tra i principali motivi ad avermi indotto, in passato, ad elaborare la mia proposta dell’anticopyright e del PDA – Pubblico Dominio Antiscadenza nel combattere l’idea di una proprietà intellettuale delle produzioni dell’ingegno, ivi comprese quelle artistiche.

Ho ragionato cioè in termini di utilità pratica dell’oggetto prodotto ai fini della commerciabilità dello stesso: se questa utilità pratica esiste allora l’oggetto è commerciabile, e quindi di conseguenza, riferendoci all’arte, si tratta di un prodotto di artigianato artistico finalizzato all’esercizio del mestiere e alla vendita, altrimenti, tutto ciò che è un mero prodotto artistico, con valenza esclusivamente culturale, non può avere un valore commerciale di merce se non a quelle determinate condizioni in cui non si pregiudichi la sostanza del contenuto culturale stesso trasformandolo in merce.

Su tale assunto si fonda dunque la mia idea dell’anticopyright nell’arte e nella cultura in generale, proprio perché, a mio modesto avviso, le opere d’arte, in quanto non posseggono una diretta utilità pratica (diretta nel senso di manifesta), è evidente che non possono essere considerate una merce o beni commerciabili.

Tale principio alla base della mia idea di anticopyright si esplica attraverso il rifiuto e la rinuncia volontaria alla proprietà intellettuale, quest’ultima ritenuta quell’istituto responsabile della tutela dell’intero sistema di profitto economico delle opere dell’ingegno della nostra società mediatica.

Il lavoro intellettuale (quindi anche l’arte) a mio avviso non è e non può essere un vero e proprio lavoro o mestiere dir si voglia, bensì un impegno sociale o, se si vuole, un servizio sociale e solo in quanto tale (cioé servizio) potrebbe essere remunerato: tale impegno genera cultura, mentre veceversa l’artigianato (compreso quello artistico) ed il lavoro manuale in generale sono tesi a produrre oggetti di utilità quotidiana e dunque vendibili, commerciabili, laddove la vendita serve a remunerare in primis il costo dei materiali e il tempo di produzione che ha sostenuto il produttore e in secundis quella frazione di utilità che l’oggetto in sé produce ed il cui valore monetario va a coprire e che in definitiva, in termini commerciali, rappresenta il vero profitto del produttore del cosiddetto “valore aggiunto”, una volta sottratti i costi di produzione.

Pur ragionando in tal senso, tuttavia, non si arriva a scongiurare il rischio di speculazione e di arricchimento in generale, ma almeno non lo si fa alle spalle della produzione intellettuale, che, secondo me rappresenta un reato contro l’umanità!

Anche io, come altri hanno fatto, ho letto il libro di Pallante intitolato “Sono io che non capisco” gentilmente prestatomi da un caro amico: a dire il vero avrei preferito downloadarlo in formato elettronico gratuitamente dalla rete, ma purtroppo il testo è coperto da full-copyright ed è proprio il caso di dire, parafrasando il titolo, che sono io che non capisco come mai, nell’affrontare un tale argomento, poi si possa incappare in una simile “gaffe” (almeno mi auguro che sia tale e che non sia un fatto voluto) nel non essersi neanche preoccupato di rilasciare il testo (ma anche gli altri libri della sua editoria) in rete sotto licenza di permesso d’autore: per la serie “fate quel che dico ma non quel che faccio!”

Ebbene, pur stimando valido tutto il lavoro di Pallante di critica al sistema economico capitalistico, al concetto di PIL e allo sviluppo industriale indefinito della diabolica equazione innovazione/obsolescenza = progresso, in favore, invece, di un nuovo stile di vita basato sulla sobrietà e l’ecologia come vera forma di progresso e di benessere per l’uomo (la sua idea di decrescita felice è stata illuminante e rivoluzionaria per le nuove generazioni, oserei dire quasi quanto lo è stato il marxismo in passato per la mia generazione), tuttavia la sua decrescita felice, presa in sè nel fare i conti col nostro sistema strutturale socio-politico-economico, possiede in nuce gli stessi germi del fallimento del marxismo perché essa è destinata a perire per la strumentalizzazione imperante e costante che lo stesso sistema esercita nei suoi confronti cambiandone i connotati a tal punto da vanificarne la realizzazione, facendolo rientrare in una sorta di modello di città sostenibile scaturito anch’esso dal movimento di protesta di origine inglese del transition town). Il libro di Pallante è valido dal punto di vista dell’analisi critico-politica, ma inconcludente dal punto di vista propositivo e addirittura reazionario quando si cerca di ricondurre la nobile arte dell’avanguardia al solo contemporaneo mercificato di un sistema ormai corrotto e ridotto solo a tale.

Maurizio Pallante, estende le sue critiche politiche riguardo al sistema commerciale dell’arte contemporanea affrontandola esclusivamente dal punto di vista politico e ignorando volutamente l’importanza e tutte le ragioni storico-culturali (ivi comprese le istanze politiche) che hanno portato alla nascita dei primi movimenti di avanguardia nel mondo dell’arte, ma evidentemente questa analisi può permettersela solo perché egli non è un artista.

Personalmente per artista, avanguardista o meno, intendo chiunque si accinga a esplorare in se stesso o attraverso di sé, i vari livelli della conoscenza intuitiva mediandola con le effimere e illusorie, ma pur necessarie, percezioni della realtà esterna, alla ricerca di uno stato di consapevolezza che riassuma l’essenza caratterizzante l’eternale ciclo di vita/morte in una dimensione personale che è poi riscontrabile in quella degli altri (viventi e non) in una sorta di identificazione del tutto (complessivo) nell’uno (singolo o singola cosa) = “tutt’uno“. La politica, le relazioni, le produzioni, non sono sono dunque il fine di questo percorso ma semmai solo un mezzo (così come lo è, ad esempio, lo stesso mio anticopyright della rinuncia dei diritti d’autore, che intende liberare i contenuti artistico/culturali alla propria origine e destino); ed è proprio il “mezzo” (il percorso inteso come cammino) che, al tempo stesso, accoglie in sè le istanze e le caratteristiche di “fine ultimo“.

Essendo io un libertario e, ritornando al paragone che ho fatto della decrescita felice con l’idea del marxismo, sono portato a fare la parte, per così dire di Bakunin, nel sostenere che la decrescita felice non possa essere realizzata in un contesto urbano metropolitano, perché si correrebbe solo il rischio di un’operazione di “restailing” e di recupero di un’idea di città e quindi di economia, che sono, da tutti i punti di vista, fallimentari come modello di sviluppo.

Ed ecco perché io propugno, come alternativa, per una vera concretizzazione di un efficace modello di decrescita felice, il nuovo stile di vita dell’autoproduzione e dell’autocostruzione per l’autosostentamento sia separatamente a livello individuale e/o familiare, che a livello collettivo nelle realtà alternative alle città degli ecovillaggi: entrambe queste realtà anelano ad uno sviluppo limitato e sostenibile, a misura di uomo-natura e a partire dallo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili.

Solo se proposta in tal senso la decrescita felice, a mio avviso, ha modo e senso di compiersi, altrimenti diventa solo una ennesima trovata pubblicitaria della società del consumo consapevole dei GAS (gruppi di acquisto solidale) o quell’escamotage per apparire più sostenibili ed ecologici in un contesto del tutto contraddittorio e innaturale (stavo per dire disumano, ma sarebbe peccare di umanesimo nel dare troppa importanza all’uomo che rappresenta solo una piccola componente della natura ed una goccia nell’universo).

Ma torniamo ancora per un attimo ad analizzare le ragioni che mi hanno spinto a promuovere l’anticopyright dell’all rights renounced nell’arte e vi prego di seguirmi ancora per un po’ nel discorso…

Un tempo che fu, prima dell’avvento dell’industrializzazione, la merce in generale veniva prodotta dagli artigiani e l’oggetto adempiva sempre a una funzione di utensile in quanto di ““utilità” pratica” e questo è continuato anche con la prima industrializzazione, dove, tutto sommato, il prodotto era ancora di tipo artigianale, finché con l’avvento delle nuove tecnologie e dei mass media, qualche astuto imprenditore non ha capito che, attraverso l’uso dei media (pubblicità) sarebbe stato possibile creare dei falsi bisogni per l’uomo consumista (quindi libero di possedere ogni merce) al quale, in questo modo, si sarebbe potuta vendere tranquillamente anche merce senza alcuna utilità diretta: questo stesso principio è stato poi, per traslato, trasferito nell’arte, intesa come quel campo di interesse che non produce una diretta utilità, facendo in modo che a certi oggetti dell’artigianato definiti artistici (quadro, scultura, ecc.) si operasse in questo modo una sorta di dematerializzazione dell’oggetto (artistico), elevandolo ad opera d’arte nel creare quel plusvalore di cui si è parlato all’inizio e riuscendo a far lievitare il prezzo dell’oggetto stesso fino alle stelle.

Il nuovo oggetto decontestualizzato, quindi, pur non rappresentando un bisogno primario perché privato della sua diretta utilità, con questa semplice e unica operazione, diventava tuttavia costoso e necessario: diventava cioé l’opera d’arte! E questa è infatti la tendenza della nuova industrializzazione che ha ormai inglobato cultura (qual’è anche l’arte e la produzione intellettuale in genere) e servizi sociali nei valori commerciali.

Faccio 2 esempi, tanto per rendere più chiaro il concetto: il primo è sul “libro” e poi sul “quadro di pittura”.

a) Il libro.

Fisicamente il libro è un oggetto, un utensile per la lettura, cioé il libro in sé come manufatto col suo particolare tipo di carta, di copertina, di rilegatura, ecc. che tuttavia include anche una produzione intellettuale rappresentata dal suo contenuto scritto.

- Domanda: qual’è dunque l’utilità diretta di un libro?
- Risposta: il passatempo per la lettura, cioé il tempo piacevolmente impiegato per la sua lettura e che è relativo al numero di pagine da leggere.

Il libro dunque è un oggetto artigianale (oggi industriale) e pertanto commercializzabile, laddove, col prezzo di vendita, si retribuiscono il costo dei materiali e il profitto rappresentato dall’utilità della lettura. Badate bene però che abbiamo retribuito l’utilità del tempo che piacevolmente si dedica alla lettura non che abbiamo certo pagato le idee esposte nel libro dall’autore, che invece, essendo una produzione intellettuale sono culturali o artistiche, patrimonio di tutti e in quanto tale, non sono remunerabile perché le idee, in quanto cultura o arte, non sono in vendita o meglio, non dovrebbero essere in vendita: chi esalta il valore commerciale del contenuto di un libro elevandolo a particolare pregio e servendosi di ciò come disriminante per aumentarne il prezzo, in pratica sta strumentalizzando la cultura facendovi una speculazione economica considerando anche il contenuto come merce! E’ solo così facendo, che in modo sbagliato, il libro di un autore può valere molto più di un altro!

b) Il quadro di pittura.

Così come il libro, anche il quadro in sé contiene una utilità diretta che sarebbe quella di essere un oggetto di arredo, costituito dalla cornice, dalla tela e così come un libro ha anche un contenuto, che ne rappresenta la sua parte artistica di produzione intellettuale. Ebbene non credo di fare un’eresia nel sostenere che il prezzo di un quadro dovrebbe remunerare solo il costo dei materiali (cornice, tela, colori) + la sua utilità pratica che, grazie anche in virtù del suo contenuto, consiste nel coprire o abbellire, o se volete di rendere più piacevole, una zona più o meno ampia di una parete di casa!
In genere il contenuto di un quadro è come il contenuto di un libro laddove, allo stesso modo, non è certo lecito aggiungere nel prezzo del manufatto il valore artistico dell’opera che in quanto fatto culturale è incommerciabile e incommensurabile.
Quindi il quadro non sarebbe in pratica un’opera d’arte se non relativamente al suo contenuto che espone e che non è dunque merce e che quindi, in quanto tale, non può avere un valore commerciale definibile artistico: è dal punto di vista commerciale un oggetto di design, di arredo per la casa, che rientra sicuramente in una categoria di prezzo di vendita nel ricoprire una sua utilità pratica come tutti gli altri oggetti di arredo, utilità che è senz’altro relazionata al contenuto della sua raffigurazione, ma giammai quest’ultimo, essendo un valore artistico-culturale, dovrà prendere parte al valore commerciale influendone il prezzo.

E nel sostenere ciò intendo anche sfatare un falso mito che si è creato su un clamoroso equivoco che invece ci ha ben chiarito tutta l’arte dell’avanguardia sin dal suo nascere:

l’opera d’arte non è e non può mai essere incarnata da un oggetto perchè essa consiste nell’agire, che è la forma di essenza per l’artista.

L’oggetto, se e quando si concretizza, è solo in conseguenza dell’agire e colui che lo erge a fine e scopo sublime dell’arte vuol dire che non ha capito il senso dell’intera avanguardia oppure sta volutamente cercando di trarre profitto economico nel considerare il prodotto artistico una comune merce.

Dunque, come dicevo, tutta l’esperienza dell’avanguardia ci ha insegnato che l’opera d’arte, se mai esiste, consiste solo nell’agire del suo autore (vedi performance e/o happening) e il cosiddetto prodotto artistico è solo una conseguenza transitoria, estemporanea della sua ricerca e che, in parte, è destinata a materializzarsi in cosa e di conseguenza, erroneamente, in merce!

Molto spesso tale materializzazione dell’idea, rappresentata dal particolare oggetto sia esso figurativo, volumetrico o altro, potrebbe fungere, nella peggiore delle ipotesi, da scarto, da rifiuto (magari da riciclare o da correggere – vedi i pittori che hanno ridipinto i quadri su loro precedenti opere) e nella migliore delle ipotesi rappresenta solo un’approssimazione di un’elaborazione mentale, che di per sé essendo un’operazione di ricerca di base, dell’assoluto, dell’essenziale, ha carattere di indefinibilità sia dal punto di vista temporale che spaziale, non avendo spesso corrispondenza nella vita reale.

In alcun caso un’opera d’arte può essere intesa merce, così come in nessun caso l’amore può essere prostituzione.

L’arte sostanzialmente, come sosteneva lo stesso Duchamp che per primo ha sentito l’esigenza di affrontare tale questione, è un modus vivendi, la vita profonda e parallela di un uomo (l’artista) che data la sua ipersensibilità è teso ad esplorare realtà inconsistenti o se volete quel lato intangibile della realtà apparente, di fronte alla quale l’artista, in quanto esploratore di incognite, non sentendosi appagato, è disposto ad avventurarsi.

Quegli artisti che dichiarano apertamente di produrre opere di valore commerciale come risultato della propria ricerca rivolta al bello estetico, sono in realtà dei semplici designers e non certo artisti e al contrario di quest’ultimi, privilegiano l’azione del perenne movimento mentale come forma di un “sentire” rappresentabile con la forma: l’artista non vede con la mente ma sente col cuore, non agisce per intelletto ma di impulso, per intuito, non si ferma all’evidenza ma esplora l’invisibile indagando se stesso come altro da sé.

Il valore dell’opera d’arte è, in definitiva, ravvisata nell’artista stesso in quanto scienziato e ricercatore (estetico) e qui veniamo a sfatare anche l’altro falso mito dell’esistenza di un pubblico di spettatori quali fruitori dell’arte: non esiste altro fruitore dell’arte al di fuori del soggetto stesso che agisce. Il cosiddetto spettatore inteso come esclusivo fruitore dell’opera non ha alcun significato, a meno che questi non sia capace di interfacciarsi con l’autore con lo stesso spirito e sensibilità e relazionandosi con lo stesso luogo dell’agire ne riesce a cogliere buona parte della spinta emotiva che ne è alla base, ma questo tipo di spettatore, si capisce bene che può essere solo un altro artista. Quel pubblico che dice di apprezzare l’opera d’arte e che è solo pronto a gettarsi sul prodotto in veste di acquirente per possederne la proprietà fisica e intellettuale, non rappresenta e non ha mai rappresentato nulla per il vero artista, perché insignificante e ininfluente per il proprio percorso di indagine.

L’opera si è ritrasformata in un feticcio e dunque in merce privilegiata proprio perché ha perso quel valore primigenio e sostanziale che legava l’operato all’operare dell’autore, acquisendo altri e nuovi significati che tuttavia hanno poco senso e lasciano il tempo che trovano, anche quando si cerca pedissequamente di rilevarne le intenzioni dell’autore…

Tutta l’esperienza dell’avanguardia storica, dicevo, sin a partire dai primi del secolo scorso dai futuristi, i surrealisti e i dadaisti, non si fonderebbe più (si noti l’uso del condizionale) sulla creazione dell’oggetto artistico, bensì avrebbe spostato, da lì in avanti, l’asse di interesse su quelle che sono invece le prerogative e l’esigenza dell’agire dell’autore (arte concettuale) dissacrando l’oggetto artistico come opera d’arte in sé considerato nella sua compiutezza.

Uno dei primi sostenitori di questa nuova visione dell’arte dell’avanguardia, che rappresentava l’inizio dell’arte concettuale, dicevo precedentemente, è stato proprio Marcel Duchamp il quale, nel rifiutare l’arte classica da lui definita retinica e olfattiva (olfattiva per l’odore di trementina che ne derivava) concepiva l’Arte quindi come un “modus vivendi” per cui l’opera d’arte doveva diventare la vita stessa dell’artista.

In un’intervista alla BBC del 1968, Marcel Duchamp dichiarò:

Non è per me molto importante che cosa effettivamente sia un’opera d’arte. Non m’importa della parola arte: è stata così screditata! Sì, anch’io ho deliberatamente contribuito a screditarla. Io volevo liberarmene. Proprio come molte persone oggi si sono liberate della religione.

Duchamp intendeva dire: sto sperimentando una forma d’arte che rinneghi tutte le caratteristiche che, si ritiene comunemente, l’arte debba avere. Vorrei far capire che ciò che costituisce la sostanza dell’opera d’arte risiede altrove.

Ma questi innovatori avevano fatto però i conti senza l’oste, perché il sistema capitalistico-industriale, che aveva nel frattempo, in quanto novità, ispirato creativamente molti di loro (vedi i futuristi), li avrebbe però da lì a poco risucchiati, riconsacrando anche le loro opere in divenire a nuovo feticcio, proprio quello che in realtà avrebbe dovuto rappresentare la cosa più insignificante, solo la traccia del gesto compiuto, lo scarto visivo, quello che restava cioé del movimento vitale e creativo dell’artista generando da esso il nuovo oggetto-artistico-simulacro (merce) per l’odioso e deplorevole mercato dell’arte contemporanea, con i suoi professionisti di critici e galleristi; a questo mercato, ovviamente, hanno aderito e contribuito solo quelli che io chiamo “artigiani dell’arte” o come, per altri versi, Bonito Oliva li avrebbe definiti “artieri” e che non sono di certo autentici artisti d’avanguardia semplicemente perché, se lo fossero, non finalizzerebbero mai l’agire dell’artista al prodotto o all’elaborato dell’oggetto artistico, per quanto estemporaneo ed etereo, come vera opera d’arte.

In definitiva sono perfettamente d’accordo con quelli che criticano e sparano a zero su questa visione commerciale dell’arte contemporanea, pur però ritenendo valide le ragioni dell’avanguardia e la direzione verso l’arte concettuale: l’arte concettuale non è un inquadrare, commentare, analizzare o giustificare l’oggetto artistico a parole, come oggi fanno i critici ed i cultori della storia dell’arte, bensì è una dimensione profonda dell’ arte vissuta costantemente in prima persona dall’artista in completa interiorità ed empatia principalmente verso se stesso.

Per concludere, a scanso di equivoci, ritengo anche valide le istanze da parte di quell’artigianato definito da alcuni “artistico“, che è sempre artigianato e dunque non è Arte, sviluppatosi intorno alle pratiche della pittura, disegno, scultura, audio-video, ecc. ed esercitate come puro mestiere e per le quali si addice e si auspica una scuola apposita (l’Accademia o la Bottega dell’arte), pratiche finalizzate alla composizione a “regola d’arte” del manufatto artigianale (artistico) e alla sua conseguente protezione col copyright come prerogativa per la sua vendita.

Altipiani azionanti